Presentiamo un breve testo in cui una riflessione di natura linguistica sembra fornire qualche interessante suggestione sul versante dell’intercultura.
E vista l’influenza reciproca che si dà tra lingua e cultura, non stupirà che queste a loro volta influenzino la sfera etico-politica.
Magari sotto il capitolo dedicato a
pluralismo e identità.
Identità e pluralismo
L’italiano nel corso dei secoli si è caratterizzato per una grande variabilità in senso geografico (diatopica, la chiamano i linguisti); per intenderci, diciamo che il riferimento è alla grande diversità dialettale che è tipica del Bel Paese. A questa, fa riscontro una variazione, uguale ma contraria, lungo l’asse temporale (la cosiddetta variabilità diacronica); in altri termini, usiamo ancora una percentuale ragguardevole di quelle parole che furono scolpite nelle terzine della Comedia dal Sommo Poeta. Come dire che nel tempo la nostra lingua non è poi cambiata molto.
Ci viene il sospetto che le due variabilità stiano reciprocamente in relazione e che la prima, a carattere locale, abbia potuto fungere da argine nei confronti della seconda, comunque inevitabile come il mutamento che riguarda tutto ciò che ha vita. Con ciò vogliamo suggerire che per "difendere" il proprio modo di esprimersi – e in definitiva la propria identità culturale – ogni popolazione della penisola (italiana, in particolare, sebbene il fenomeno appaia del tutto generalizzabile) abbia mantenuto e curato la differenza specifica che separava la propria lingua da quella delle popolazioni circostanti. Questo atteggiamento sarebbe del tutto naturale e, secondo l’ipotesi, avrebbe quantomeno determinato un forte rallentamento rispetto – lo ripetiamo – all’inevitabile variare lungo il tempo della lingua stessa.
Da questo punto di vista appare interessante la vicenda della Francia, ove anzitutto si provvide all’unità politica. E dove solo dopo sarebbe intervenuta quella linguistica, come conseguenza dove più dove meno "spontanea". È così che Parigi, una volta divenuta capitale, si è trovata a ricoprire il ruolo di centro irradiatore della lingua nazionale.
Osserviamo che, con tale incontrastato dominio, l’onda di ogni piccola variazione che il francese subiva nella capitale era destinata a riverberarsi sull’intera "provincia". Questo, per inciso, spiega la differenza, nel francese, tra la forma scritta e quella parlata, differenza che, praticamente sconosciuta all’italiano, dà in qualche modo la misura del mutamento avvenuto nei secoli.
Effettivamente, in Italia le cose sono andate, da questo punto di vista, in ben altro modo. Se la lingua che oggi parliamo è nata sette secoli fa, l’unità politica e culturale sarebbe invece assai più recente.
Non abbiamo quella razza di prove matematico-scientifiche senza le quali oggi ormai nessuno si azzarda più a dir niente. E tuttavia, il senso comune ci fa ritenere che l’ipotesi che abbiamo fatto abbia il suo fondamento nella realtà delle cose.
Nel dibattito politico nazionale, da qualche tempo e con sempre maggior forza, si nota la preoccupazione per cui grandi masse di persone, provenienti da diversi retaggi culturali, possano in qualche modo corrompere questa supposta costruzione identitaria che chiamiamo, con questo strano eudisfemismo, "italianità".
Infatti, a ben vedere, la questione non lascia scampo. Né una lingua né una cultura restano uguali a sé stesse lungo il corso del tempo. Il mutamento, come si diceva, è un fenomeno intrinsecamente legato alla vita. E che la lingua sia un essere vivente appare certo, anche se pure in questo caso qualcuno potrebbe negare riparando dietro all’esile "mito mignolo" della scientificità.
È pur vero che il confronto e il pluralismo, con una peculiare "perversa virtuosità", sembra poter fungere da argine e da stimolo per il mantenimento, o meglio, per il non troppo repentino mutare della stessa costruzione identitaria. Sembrerebbe di poter dire che l’incontro con l’altro ci consenta di controllare la variazione, evitando così di venirne travolti.
La direzione che il discorso sembra prendere è allora quella del retroterra culturale – e pure linguistico – che può favorire la nascita di una tale apprensione. Ma per questo non possiamo chiedere se non a chi, già a partire dal sostrato linguistico (appunto!), tema di veder indebolite le proprie radici. Scriviamo dalla Toscana, una terra dove è vero, lo diceva il Sommo Poeta, "si parla male", ma dove la continuità linguistica da un lato e la solidità della "sottostruttura" materiale dall’altro non presentano particolari criticità, dove insomma non c’è bisogno di chiedere che si facciano leggi per reintrodurre l’uso della varietà primigenia (cosiddetta "dialettale") del proprio modo di esprimersi.
In conclusione, sembra piuttosto che e l’incertezza e il vacillare del substrato linguistico e culturale siano ciò che dà il via a una questione tanto urgente. Resta allora da porsi il problema della parte che potrebbero recitare le masse di migranti che raggiungono questo Paese. Forse, una iniezione di pluralismo è provvidenziale e come tale dovrebbe ispirare gratitudine. O forse, dopo che si sono rimosse, ovvero, "opportunamente" dimenticate le diversità interne in nome dell’unit(ariet)à nazionale, tornare a riflettere sulle variegate e con ciò a volte incerte basi su cui poggia la presunta identità degli italiani incute più di un timore. Così, i migranti, umili quanto involontari portatori di un sano antidoto alla "livella" culturale che sotterra questo paese (ma non solo questo), vengono visti come destabilizzanti e sovversivi dell’ordine costituito. E come altri ben più noti umili sovversivi, vengono messi – metaforicamente, s’intende – in croce. Certamente non stupisce, ma sicuramente dispiace che non si riesca ad assegnare loro una parte migliore in questo atto. (G.F.)